Liliana Martino Cusin

Liliana Porro Andriuoli

Liliana Martino Cusin è mancata il 14 gennaio scorso nella sua casa genovese. Molto nota a Genova sia come organizzatrice culturale (è stata per 12 anni Presidente del “Corimbo – Associazione amici della poesia genovese”, durante i quali ha organizzato numerosi incontri con personalità letterarie anche di spicco) sia come poetessa: ha pubblicato cinque raccolte di versi Parole e silenzi; Col lume acceso; Segni bianchi sul muro; La stanza del merlo e Sotto lo stesso cielo. Ed appunto come poetessa le avevamo dedicato nell’Aprile del 2005 la “Lettera in versi” n. 13, dove abbiamo cercato di offrire un suo compiuto ritratto poetico. Sue poesie sono state lette nell’Oratorio di San Filippo Neri durante un recital natalizio (dicembre 2007), In cerca di Dio con le voci dei poeti liguri, tenuto da Bruno Rombi, accompagnato da Stefano Buzzone e Davide Giancotti del gruppo musicale “Altera”, ed anche da Paola Comolli in occasione del quindicesimo anniversario (ottobre 2007) della rivista “Nuovo Contrappunto”, rivista alla quale ha talvolta collaborato.

Ma il ritratto forse più veritiero ce l’ha offerto la stessa poetessa nei versi della sua poesia Nel segno dell’ariete (tratta da Col lume acceso), che sotto riportiamo.

NEL SEGNO DELL’ARIETE
A me stessa

Non ho imparato niente
dalla scacchiera della vita
il bianco muove
quando meno te l’aspetti.

Da sempre interrogo
la sintassi delle cose
cerco la formula che sfugge
al calcolo previsto
il talismano nel segno dell’Ariete.

A me stessa fedele
sono rimasta quella di ieri
che andava per mulini a vento
e ritornava a casa a mani vuote.

Ora sono una donna quasi vecchia
ma il cuore è sprovveduto
pur se si sforza d’apparire saggio.

Come facilmente si evince anche da questi pochi versi, la poesia di Liliana Martino Cusin è caratterizzata da un dettato limpido, retto da una costante musica interna e da vivide immagini, oltre che da un andamento schiettamente classico del verso. La sua è inoltre una poesia fluida e immediatamente comunicativa, che segue spesso un movimento narrativo; ma soprattutto è una poesia genuina, per la sorgiva vena di canto che la sorregge, esente da oscurità e da artifizi retorici.
Particolarmente originale è, ad esempio, la poesia Per un geco, ispirata da questo “minuscolo” rettile (Tarentola mauritanica), comunemente noto in Italia come “tarantola” o “stellione”, sorprendentemente capace di aderire a qualunque tipo di parete, anche al soffitto di una stanza: e, appunto “fissato con pensili zampette / dentro il quadrato bianco del soffitto”, la poetessa ne scorge uno nella sua stanza. Non toglie però lo sguardo dall’animaletto inorridita; anzi, con sorpresa e stupore, continua ad osservarlo, risalendo col pensiero fino ai suoi più lontani antenati: “Discendente da rettili preistorici / ne riporta nei minimi dettagli / il colore le squame gli occhi a palla / la linea della coda in miniatura / il dorso a nervature come fronda. / E l’antica reciproca paura”.
Un altro animale particolarmente caro a Liliana Martino è stato un merlo indiano che per quattordici anni, nella sua grande gabbia, in una stanza situata al centro della casa è vissuto con loro, come persona di famiglia. Allorché morì fu sepolto nel giardino di casa e tacque per tutti una voce amica. A lui Liliana Martino ha dedicato una poesia che riportiamo al termine di queste pagine (ed anche la sua quarta silloge è a lui intitolata).
L’evento della morte, e soprattutto della morte di esseri umani, ha sempre fornito lo spunto ai poeti per delle liriche toccanti e sovente molto compiute. Così è anche per Liliana Martino Cusin, la quale ne ha scritte alcune di sicura efficacia, come Jalloum Hamet, una poesia in cui il dramma di un uomo viene fermato dalla poetessa in sequenze essenziali, ma quanto mai commoventi e toccanti: “Erano fredde quella sera le stelle / nel cielo di Milano. / Sul marciapiede, / ben allineati, / accendini, occhiali, cravatte, / false Lacoste, false borse Vuitton”. Siamo dunque a Milano in una fredda sera d’inverno e la gente, intirizzita, sfila indifferente e veloce davanti a quelle “borse di falso Vuitton” del povero ambulante; ha premura, è distratta e non si accorge che, mentre il giovane guarda la luna e pensa alla sua terra, sta morendo assiderato. E proprio alla luna la poetessa affida nell’explicit il compito di rendere meno doloroso e tragico il momento del trapasso al giovane extracomunitario: “e la luna venne, / la luna comprò tutti gli accendini, / gli orologi, gli occhiali, / tutte le borse di falso Vuitton…”.
Non meno efficace è Solo io ti guardavo, dove la poetessa, in una stanza d’ospedale, assiste alla morte del suo giardiniere, anch’egli uomo solo nel deserto del mondo: “A lato / – con il cuore di vetro tra le mani – / solo io ti guardavo. E forse / anche tu mi vedevi; / oltre l’opaco della pupilla / già l’ombra / dello spazio che c’è tra stella e stella”.

Varie altre sono le “occasioni” da cui nasce la poesia di Liliana Cusin: possono essere offerte da una breve sosta in una stazioncina di paese (nello specifico il paese è Cengio, nell’entroterra savonese), che prepotentemente richiama alla sua memoria una sera lontana della giovinezza: “Era la stessa / la stazione di Cengio / stessa la casa del ferroviere, / come adesso remoto / il suono del campanello, / l’odore speciale di treno. / … / Una sera, / – come questa – / stesso odore di treno, / tra cumuli di neve sporca / appassionatamente mi dicevi ti amo” (Alla stazione di Cengio).
Un’altra occasione di poesia Liliana Martino Cusin la trova nell’esperienza della contestazione studentesca del ‘68, da lei vissuta attivamente nella duplice veste di insegnante e di madre di tre figli, tutti studenti in quegli anni. Eravamo in molti a quell’epoca a credere di potere cambiare la società e renderla migliore: “Abbiamo cercato / l’isola che non c’era / il nuovo Adamo / che ripulisse le strade del mondo” e, “come rabdomanti / cercato acqua più pura”, “bruciato i feticci delle streghe / sul rogo delle nostre illusioni”. Non conforme alle nostre speranze, purtroppo, si è rivelato il risultato delle nostre azioni: “Ma il nuovo Adamo / non è mai nato, / non è rimasta traccia / di quella speranza demente / che vedeva brillare una stella / in ogni coccio di vetro. / Nelle secche di una folle utopia / è finito l’abbaglio…” (A quelli del 68).

Tra le poesie ispirate a Liliana Martino dagli affetti familiari assumono un grande rilievo quelle da lei dedicate ai genitori. Si veda ad esempio tra quelle dedicate al padre, la poesia che inizia: “Metto in versi il tuo passo per le scale, / metto in versi il bene che m’hai dato, / e quello che di te resta nel vento” e che così si conclude: “Tutto scorre, / il fiume cambia l’acqua / ma tu resti, // Padre, / stella fissa nel volgere del tempo” (Amore in versi). Quanto alla figura della madre ella ci appare sempre nella vecchia casa di Millesimo: talora durante l’abituale raduno per le feste dei Santi, allorché tornava ad unirsi tutta la famiglia (“Tornavamo ogni anno / a questa casa per le feste dei Santi” (Le feste dei Santi, da Col lume acceso), talaltra durante le sere in cui tutti erano ancora serenamente insieme: “Era giovane / mia madre / quelle sere sotto la luce della cucina / a ricamare orli all’uncinetto” (Dentro il filo del tempo); ma per inciso, quasi un ricordo nel ricordo, compare anche nella già citata Luna di marzo, dove leggiamo: “(Mia madre / potava le sue rose metteva / a dimora le sementi / per la luna di marzo)”.
Si legga anche Tu eri la roccia, dedicata affettuosamente a Nonna Nina, vista con gli occhi pensosi del ricordo: “E venne questo dicembre lacerato / – quando tu incominciasti a morire – / scompigliando la tela d’un vissuto, / trama di giorni / che parevano eterni. / Tu eri la roccia, / il punto fermo, / il luogo dove si torna”.
Da questi e da altri testi qui non citati emerge l’immagine di una poesia limpida e schietta, assorta e profonda e sempre retta da un sentimento di grande umanità.

LA STANZA DEL MERLO

Qui, nella stanza del merlo
dove traluce il ciliegio
e gli ulivi
tagliano il confine della luce,
quanto di me resta
di un tempo vecchio e nuovo
tra fogli e carte sparse
si consuma.

Stanza del merlo,
cuore della casa,
sala da pranzo, bunker,
fortilizio,
centro d’ogni contesa
e d’ogni attesa,
luogo della memoria,
di banchetti e battaglie,
amato detestato
consacrato
dove la luce si fa e si disfa
e dove il merlo fischia
e mi consola.

QUANDO VERRA’ IL MIO TEMPO

Quando verrà il mio tempo
io me ne andrò
ma la magnolia,
grande fin sul tetto,
mostrerà come adesso
i suoi carnosi fiori
l’ulivo centenario farà giochi
d’argento con le stelle.

Si sentirà nell’aria
come adesso
l’odore della menta
il rosmarino a primavera
metterà piccolissimi fiori
azzurri sopra i rami.

Ritornerà il mio spirito
nel giardino disabitato
sentore d’assenza avrà il mio cuore
rimasto al suo nido
d’uccello migratore.

LIGURIA

La tua anima
è tutta in questo mare
che trasmuta
nelle ore e nei giorni,
in questi monti d’ambra
alle spalle delle brevi arene,
in queste rocce a picco
variegate di fiori.

Liguria,
striscia verdazzurra sul mare
costruita dal tempo e dal vento,
anima segreta
di sepolte divinità.

Qui la mia vita
è approdata un giorno
portata dal destino
e la mia casa grande, ora,
sul mare,
con il limone verde alla finestra,
è dentro questa terra di Liguria.

Quando il vento mi porta i tuoi profumi
io respiro la tua anima segreta,
fatta d’acque, di vento, di salmastro
e di fermenti lievitati lungo il tempo.

PER QUATTRO ULIVI
A Pietro

Quattro ulivi ho piantato
comperati alla fiera di Sant’Agata;
sei anni son passati,
si son fatti adulti
succhiando humus con pazienza antica.

Nella trama argentata delle foglie
di miti di leggende
di mediterranee lotte all’impeto dei venti
di forti toni
serbano racconti.

Piantare un albero
è come fare un figlio:
te lo vedi allungare sotto gli occhi,
insieme a lui germoglia la tua anima.